La «Ginestra» e l’ultimo Leopardi (1987)

Testo della conferenza tenuta il 4 maggio 1987 a Perugia, Teatro Turreno, organizzata dalla Regione Umbria e dal Comune di Perugia con il coinvolgimento delle scuole superiori. Il testo è stato successivamente pubblicato nell’opuscolo Ricordare Walter Binni, Perugia, Volumnia, 1998, a cura dell’amministrazione comunale, e poi raccolto in W. Binni, Poetica e poesia nella «Ginestra» di Giacomo Leopardi cit., anche con la riproduzione in DVD della registrazione video.

LA «GINESTRA» E L’ULTIMO LEOPARDI

Sarà permesso a chi, come me, è nato a Perugia settantaquattro anni fa (in Via della Cupa, sotto l’arco dei Mandolini, a poche centinaia di passi dal nostro magnanimo palazzo comunale) e che, d’altra parte, ha dedicato da piú di cinquant’anni, se non il suo maggior tempo lavorativo, certo le sue migliori energie intellettuali e una profonda passione di studioso e di uomo intero a Leopardi, di avviare questo discorso sulla genesi e l’interpretazione della Ginestra in forma direttamente autobiografica. Perché qui a Perugia, nella mia lontana adolescenza, ebbi le prime profonde, autentiche impressioni della grande poesia leopardiana attraverso letture non scolastiche, ma fatte nei luoghi a me piú cari della nostra città (Porta Sole, il Frontone, o magari sui nostri colli vicini – Prepo, Monte Pecoraro, che divennero presto per me gli «odorati colli» delle Ricordanze).

E qui a Perugia la mia indole malinconica, il mio assillo per la sorte dell’uomo e la mia precoce incredulità trovarono un appoggio di educazione sentimentale, morale e mentale anzitutto in Leopardi.

Quelle prime letture (passato, a diciotto anni, a Pisa, alla Scuola Normale Superiore, e incontrato Aldo Capitini, a Pisa e poi a Perugia, grande personalità essenziale nella mia formazione giovanile e nella mia vita, e anche lui appassionato leopardiano) promossero un mio strenuo studio di tutto Leopardi e la stesura di una tesina universitaria di 3° anno, nel ’34, sull’ultimo periodo della lirica leopardiana, che in gran parte fu attuata nelle vacanze perugine. E ancora a Perugia, dove ritornai (con la mia giovane compagna lucchese, la mia compagna di sempre) dal ’39 al ’48 (pur fra richiami in guerra, attività clandestina in varie città e il periodo in cui fui a Roma come deputato alla Costituente), ripresi in mano la mia tesina e, dopo un corso leopardiano all’Università per Stranieri nel ’45, stesi il mio libro del ’47, La nuova poetica leopardiana.

Sicché la ricorrenza del 150° anniversario della morte del poeta mi offre la gradita occasione di parlare ancora una volta, e proprio qui a Perugia, di Leopardi, che per me a questa nostra città è profondamente associato.

Un poeta tanto certamente amato e valutato, specie dal De Sanctis in poi, quanto spesso ancora frainteso e incompreso nella sua vera grandezza e nella sua profonda attualità di massimo interprete – a livello non solo italiano – di tutta l’epoca moderna, nei suoi problemi nascenti e fondamentali, sicché ancora egli ci parla, con la forza moltiplicatrice della sua poesia, perentorio e inquietante, stimolante, sulla via sempre piú aspra della storia, a doverosi e lucidi impegni e comportamenti intellettuali, culturali, etico-civili. Ancora e sempre piú, egli è per noi portatore di un messaggio che culmina nella Ginestra, supremo capolavoro di tutto Leopardi e del suo ultimo sviluppo.

Perché, proprio al termine della sua complessa vicenda esistenziale, intellettuale e poetica, il Leopardi sprigiona tutto intero il succo profondo della sua esperienza di pensatore-poeta, la ricchezza inesausta della sua forza creativa, ricapitola e condensa la sua ardua problematica portandola a maturazione completa, entro la nuova prospettiva che egli aveva aperto dopo il definitivo abbandono di Recanati nel ’30, e in cui il fondo piú autentico della sua personalità eroica, virile, protestataria si salda definitivamente con la direzione di un pensiero materialistico integrale e articolato, antiteistico e alla fine ateo e si realizza in una nuova poetica attuata in forme audacissime, sinfoniche, piú che melodiche, essenzialmente “antiidilliche”.

Questa nuova poetica raccoglie cosí la piú autentica spinta di fondo della precedente poesia leopardiana, e si svolge dalle sue varie pieghe e componenti – che pur tanta grande poesia avevano prodotto –, sempre diverse esse stesse, da quella totale tendenza “idillica” in cui per tanto tempo la critica ha rinchiuso e mistificato il vero Leopardi, in accordo con la consapevole, interessata o inconscia, ma pur significativa esorcizzazione delle conclusioni del suo pensiero-poesia, troppo scomodo e inquietante per le prospettive di una società bisognosa, malgrado o a causa delle sue tremende crisi, di consolazione e rassicuranti certezze, di speranze (generose o meno) in destini ultraterreni o terreni, in visioni trionfalistiche delle conquiste e delle sorti umane.

Della vera natura e tendenza fondamentale di questo supremo contestatore di ogni sistema spiritualistico e idealistico, provvidenzialistico e falsamente “progressivo”, solo verso la fine del primo Novecento si è presa diversa coscienza ad opera, non a caso, di intellettuali, allora ben giovani, di sinistra, i quali, nel fervore della lotta antifascista e nelle stesse ardenti e presto deluse speranze del ’45-46, identificarono in Leopardi il loro interlocutore piú alto nella nostra storia e nei loro problemi, il loro intellettuale-poeta e moralista piú congeniale e impiantarono e svilupparono (io già fin dal 1934 con la tesina ricordata e dal 1935 con un esile saggio giovanile, ma soprattutto nel ’47 con il mio libro citato La nuova poetica leopardiana e Cesare Luporini con il suo Leopardi progressivo, e ancora piú tardi e a lungo, fra altri numerosi studiosi convergenti in quella prospettiva, Sebastiano Timpanaro con i suoi vari interventi, e ancora io fino ad oggi, specie con il volume del ’73, La protesta di Leopardi, e con l’edizione di Tutte le opere leopardiane), impiantarono, ripeto, un’interpretazione storicamente fondata, secondo la quale tutto Leopardi dev’essere visto alla luce di un’essenziale e nucleare tendenza attiva ed eroica che si commuta in una poesia dal fondo sempre energico e arditamente conoscitivo, pur nella complessità di uno svolgimento cosí ricco di direzioni di poesia, in accordo e ricambio con l’elaborato scavo filosofico e moralistico, piú direttamente attuato nei registri particolari dello Zibaldone e delle Operette morali.

È nella zona dell’ultima poetica leopardiana che si prepara piú direttamente la Ginestra, anzitutto appunto con il consolidarsi della stessa intera personalità del Leopardi, con lo sviluppo estremo del suo pensiero materialistico e antiprovvidenzialistico, con il sempre piú stringente nesso fra pensiero e poesia che, sempre essenziale in questo grande pensatore poeta (anche quando nella sua riflessione in sede teorica relativa al contrasto natura-ragione egli affermava l’assoluta inconciliabilità fra poesia e filosofia) giunge ora alla sua massima integrale fusione. Sicché insieme procedono lo sviluppo del suo pensiero e quello delle sue forme poetiche fino alla prova massima in tal senso del capolavoro della Ginestra, quando davvero vien realizzato un eccezionale, ma sporadico pensiero del ’21 secondo cui ai geni piú alti può riuscire di essere «sommo filosofo anche poetando profondamente» e quello piú sicuro del ’23, nel quale si afferma il rapporto stretto tra filosofia e poesia definite le facoltà piú affini fra loro ed entrambe del pari «le sommità dell’umano spirito».

Nel periodo dell’ultimo Leopardi preginestriano emerge cosí anzitutto la forza di una personalità che si presenta tanto piú sicura di sé e delle verità delle quali è sempre piú prontamente persuasa come lo è della sua stessa forza creativa, cui corrispondono anche i comportamenti piú aperti e scoperti del Leopardi, nei suoi rapporti con il proprio tempo e con gli altri.

Sempre piú una “ragione concreta” diviene, nella prospettiva filosofico-morale di Leopardi, una forza demistificante di miti, di quelli che egli chiama «sogni e delirii della mente umana» e approda alle sue certezze sempre piú salde e approfondite della caducità e della fragilità dell’uomo, dell’ «infinita vanità del tutto», del naturale egoismo dell’uomo a cui però si oppongono l’eroismo, la “virtú”, il contrasto degli uomini “dabbene” contro «la lega dei birbanti» (che è il mondo, massimo disvalore cosí come è) e dei generosi contro i vili, come dice nel 1° dei Pensieri.

Mai, come in questo estremo lembo disperato e fertilissimo della vita di Leopardi, il suo pensiero si prospetta nelle sue caratteristiche piú combattive, aggressive, profondamente persuaso assertore della verità, che veicola nella sua poesia, e che, con questa e con i suoi modi espressivi, si integra sempre piú entro la direzione di una poetica che non cerca piú enunciazioni teoriche, ma sempre piú è volta alla sua integrale realizzazione, sempre piú poetica in atto, in movimento, in fieri.

Qui il pensiero leopardiano si sente ben superiore al regredire del suo tempo, a cui Leopardi si oppone come portatore della suprema conquista del vero “progresso” costituito dall’unico filone valido, per lui, del pensiero materialistico soprattutto nelle formulazioni dei materialisti dell’ultimo Settecento, che ha recuperato in parte il fondo di integralità umana (corpo e mente, tutta materia che sente e pensa) e di lotta contro la natura necessario alla prima fondazione della polis civile.

Sicché, attraverso le ultime e piú direttamente polemiche, ma ben poetiche, opere del periodo napoletano dal ’35 alla morte, tutto il pensiero leopardiano converge in un’aperta battaglia ideologico-poetica nel presente storico italiano ma con lo sguardo a tutto l’ambiente ideologico e culturale europeo nei suoi rappresentanti e nelle sue tendenze metafisiche-sistematiche, idealistiche e neoreligiose del periodo della Restaurazione. Ciò avviene nella grandiosa e a lungo sottovalutata Palinodia che, attaccando i liberalmoderati fiorentini, scarnisce fino in fondo la visione deviante della perfettibilità umana, della scelleratezza del potere, della tecnologia come risolutrice automatica di tutti i problemi umani, del consumismo culturale delle “gazzette” che contribuisce a celare al popolo autentico, e da loro ingannato, la vera realtà del prepotere di ceti e di vere e proprie “razze di uomini” («sempre il buono in tristezza, il vile in festa – sempre e il ribaldo»), fino a quello che è sembrato un limite di non ritorno del suo accresciuto pessimismo, ben fermo nei limiti ferrei della natura universale e della stessa natura umana, pessimismo estremo necessario a far scattare a contrasto la risposta pessimistico-propositiva della Ginestra.

Come poi avviene nella satira aspra dei Nuovi credenti (contro gli intellettuali napoletani convertitisi allo spiritualismo e allo sciocco ottimismo) e soprattutto nel vero capolavoro dei Paralipomeni.

Qui ormai, in uno sforzo poematico di grande respiro e di eccezionale inventività, pensiero e poesia si integrano sempre piú strettamente e si rinnovano utilizzando originalmente il tono sarcastico e il ritmo satirico-eroico, anche se la tensione maggiore è proprio là dove la verità del “malpensante”, come si definisce Leopardi, acuisce e sfonda quei toni fino a quelli del grottesco, dell’orrido, del macabro.

Quanto appunto allo sviluppo del pensiero etico-filosofico, il suo materialismo raggiunge nei Paralipomeni alcuni consolidamenti e accertamenti essenziali e in parte nuovi: l’affermazione definitiva della materia pensante (donde l’assurdità di ogni aldilà privilegiato degli uomini, ferocemente satireggiato in una vacua non esistenza e degli uomini e di tutte le specie animali in un Averno «senza pene e senza premi»), l’assurdità di ogni finalità provvidenziale della natura, definita come «capital carnefice e nemica» di tutti i viventi e mortali, la conferma essenziale da parte del senso comune delle sue posizioni materialistiche, mentre anche politicamente la satira e la polemica investono ferocemente la situazione storica dello scontro fra i granchi (gli austriaci) e i topi (i liberaldemocratici italiani illusi anzitutto nel loro ottimismo e spiritualismo) rivisto nella storia dei falliti moti del ’20-21 e del ’31.

Mentre i Pensieri disvelano profondamente la natura dell’uomo qual è, naturalmente malvagio in quanto esso stesso frutto della matrigna natura, ma aprono anche spiragli propositivi in vista di una nuova società e, in questa, del nuovo uomo, in relazione diretta con la Ginestra.

E certo appunto dove il rapporto pensiero-poesia, nel loro integrale messaggio, raggiunge la sua intera, perfetta fusione è nella Ginestra: il Tramonto della luna ne rappresenta come un complementare corollario originalissimo nelle sue lucide e scandite arcate strutturali e particolarmente acuito nella spietata indagine sul penosissimo inevitabile percorso biologico della vita umana.

Nella Ginestra (per me e per altri la piú grande poesia dell’epoca moderna) pensiero e poesia (tanto espressivi-impressivi, quanto in continuo movimento di acquisto di verità e di poesia) trovano la loro vita indissociabile nella voce di un supremo messaggio poetico.

Cosí sconvolgente per novità di temi e di forme coerenti, cosí superiori ad ogni tradizione di pensiero e di poetica, di appello cosí profondamente demistificante e amaramente propositivo del poeta pensatore alle soglie della morte, che la critica ha stentato a lungo e a volte ancora stenta a comprenderne la grandezza e l’integralità inventiva, o riducendola a frammentaria serie di parti ripetitivamente riflessive e di squarci di idillio cosmico, o mistificandola come ultima proposta di una “società idillica”, o magari fraintendendola per un messaggio cristiano, o concludendo sul valore del profumo del mistero come forma di religiosità negativa dell’odorata ginestra, o vedendo addirittura nell’appello della Ginestra l’invito leopardiano, nel nostro presente, alla lotta contro il “materialismo”, identificato come volgare fruizione di beni e di piaceri materiali, e non come un’alta dottrina filosofica che risale ad Epicuro e Lucrezio e poi alle teorie tardo settecentesche di Holbach, Helvétius, Diderot, e poi del diverso materialismo di Feuerbach e del materialismo storico e dialettico di Marx ed Engels e su su fino a Gramsci, e che cosí coinvolge personalità estremamente complesse e ben capaci di pensieri e sentimenti altissimi come lo è il grande materialista Leopardi.

Per non dire anche delle sottili obiezioni all’interpretazione pessimistico-eroica della Ginestra, con le disquisizioni, variamente ingenue e sofisticate, sul significato del simbolo della odorata ginestra, simbolo di femminilità e quindi di passività, la cui unica proposta attiva sarebbe l’offerta del «dolcissimo profumo» recante un conforto, simile a quello del suono e del canto «tra i conforti piú dolci che gli uomini possono scambiarsi nel deserto della vita»: “la saggezza” della odorata ginestra, superiore alla stoltezza degli uomini, consiste invece nel suo “eroico” rifiuto dell’orgoglio spiritualistico e della sciocca credenza in un destino privilegiato proprio e dell’uomo, come individui e come specie, e nel rifiuto insieme della rassegnazione e dell’autocompianto: essa sa che ha avuto «e la sede e i natali» sulle aride falde del Vesuvio (e dunque nel deserto della vita) «non per voler ma per fortuna» e non crede «le frali sue stirpi o dal fato o da lei fatte immortali».

L’eroismo (parola che può apparire anche retorica se – sia detto una volta per tutte – non si parte dal significato che Leopardi le dà, dove ritrovando nell’“amor proprio” la molla essenziale dell’agire e pensare dell’uomo, ne sottolinea fortemente la biforcazione in amor proprio, privatistico e utilitaristico che diventa quel che Leopardi chiama «pestifero egoismo», padre di tutti i vizi, e in amor proprio rivolto agli altri, al bene comune, ai «pubblici fati» e diventa “eroismo”, padre di tutte le virtú), l’eroismo, ripeto, nella Ginestra si ritrova persino nel simbolo del fiore “gentile”, che soffre senza orgoglio e senza viltà e cosí porge non la sua mite consolazione, ma il suo esempio e atto altruistico, di “compassione” (nel senso etimologico della parola) per tutti i viventi, di cui con “sostanziale” fermezza condivide l’inevitabile sofferenza e debolezza e la sorte inevitabilmente mortale.

E il simbolo trova raccordo con il personaggio umano esemplare, con cui lo stesso Leopardi qui si identifica totalmente, sulla base di tutta la sua enorme esperienza della souffrance, della impossibilità della felicità e del piacere e in forza della sua consentanea esperienza moralistico-filosofica, in forza della sua stessa poetica piú matura della “lirica”, tutta centrata sul poeta, non imitatore della natura, ma inventore, creatore, sulla base di sentimenti e pensieri veramente vissuti:

Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale:

quella che grande e forte

mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che dei mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune ...

A cui oppone lo stolto intellettuale spiritualista e perfettibilista, che si ritiene destinato al piacere, non volendo riconoscere la sua sicura sorte mortale, le sue inevitabili sofferenze e la sua debolezza estrema di fronte alle catastrofi naturali come l’eruzione vesuviana del 79:

Magnanimo animale

non credo io già, ma stolto,

quel che nato a perir, nutrito in pene,

dice, a goder son fatto,

e di fetido orgoglio

empie le carte, eccelsi fati e nove

felicità, quali il ciel tutto ignora,

non pur quest’orbe, promettendo in terra

a popoli che un’onda

di mar commosso, un fiato

d’aura maligna, un sotterraneo crollo

distrugge sí, che avanza

a gran pena di loro la rimembranza.

Al centro del canto è Leopardi, l’uomo e l’intellettuale, l’io poetante e pensante, il protagonista effettivo, nel presente (qui ed or, la Ginestra è il canto del qui ed or – e dunque, ripeto, nel presente tutt’altro che eluso e “contemplato alla finestra”), nel suo «secol superbo e sciocco», in aperta lotta con l’intellettuale spiritualista e ottimista; si badi bene: «astuto o folle», perché Leopardi ben capiva l’interessata collaborazione fra quegli intellettuali e la causa dei ceti reazionari e di quelli liberalmoderati che mantiene nell’ignoranza o che propina menzogne al volgo, cui si deve invece la verità, la verità intera («nulla al ver detraendo»). E questa verità è da lui non solo affermata con perentoria persuasione ed etica energica doverosità

[...] (Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto)

ma è portata alle sue estreme e stringenti conclusioni, che per lui sono davvero definitive, testamentarie, segnate da un estremo salto di qualità rappresentato dalla loro forza intera e moltiplicata da una suprema poesia, e insieme con una indubbia continuità con quanto egli era venuto elaborando nella sua complessa esperienza totale e rinnovando nell’estrema fase della sua vita: via le illusioni, via la speranza, via piacere e felicità, scontati già con la Palinodia e i Nuovi credenti e i Pensieri ogni mito di progresso puramente tecnologico e ogni illusione sulla nemica natura e sulla natura degli uomini (che sono pur prodotti della natura e della natura portano in sé istinti bassi, crudeli, egoistici), demistificati tutti i miti del presente che proseguono la via errata di un lungo passato spiritualistico, teocentrico, geocentrico, antropocentrico e distrutte le ideologie reazionarie e moderate sino alla loro estrinsecazione nella politica italiana ed europea e nella natura stessa del “potere” nei Paralipomeni, ma raccordato il “vero” (razionalmaterialistico e antiprovvidenzialistico) con il possibile, auspicato e alla fine necessario “vero” amore fra gli uomini generosi e “saggi” o rieducati dalla verità leopardiana.

Il pessimismo eroico di Leopardi raggiunge ormai la sua meta combattiva e propositiva in un’apertura verso il futuro (non perciò garantito in alcun modo) in un’offerta di “buona, amara novella”, priva di ogni afflato trionfalistico, ma sostenuta da una energica persuasione della possibilità di una via stretta ed ardua, chiusa nei limiti di un destino di morte e di sofferenza, di rinnovate stoltezze, di catastrofi naturali terrestri e cosmiche: “eroica” nella sua volontà di resistenza e contrasto, di non rassegnazione, nel doveroso tentativo di rifondare sulle sue amare verità una diversa società, una vera polis comunitaria, nell’alleanza prioritaria tra i veri intellettuali, portatori di verità, e volgo (senza nessun senso classista, dispregiativo) pieno di forze potenziali autentiche, ben capace di “virtú” (la parola moralmente suprema mai abbandonata da Leopardi):

Cosí fatti pensieri,

quando fien, come fur, palesi al volgo,

e quell’orror che primo

contra l’empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper, l’onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata probità del volgo

cosí star suole in piede

quale star può quel c’ha in error la sede.

Fra questi brani, una volta definiti prosastici e discorsivi – e dove invece batte il ritmo, l’essenzialità di una poesia senza cesure – e i passi definiti “lirici”, poetici, immaginosi, magari come parti di idillio cosmico, illuminati da aperture di paesaggi, non c’è vera differenza o profondo stridore. Non solo questi ultimi non avrebbero senso senza quelli, ma proprio l’intera Ginestra è – sull’estremo approdo della nuova poetica dal ’30 in poi – una possente lirica sinfonica in cui il respiro vigoroso del pensiero è perfettamente fuso nella struttura poetica, costruita a lunghissime strofe tentacolari, mosse a loro volta dall’ansia dimostrativa, polemica, propositiva, struttura poetica fuori della quale quel pensiero inesausto e in continuo movimento e crescita non avrebbe il suo vero senso e valore. Una nuova misura critica è comandata da una poesia che travolge ogni distinzione retorica fra oratoria, declamazione polemica, poesia immaginosa e lirica. Il pessimismo eroico risulta intero proprio nel potenziamento moltiplicatore di una costruzione poetica, in un ritmo (che è del pensiero e della poesia inseparabilmente) nella sua unità dinamica, in un incessante e impetuoso procedere di colata lavica e incandescente di immagini-pensieri, nello sprigionarsi inscindibile della novità e pregnanza del pensiero e di una luce ardente e funerea, che è quella stessa espressa-impressa delle verità proclamate e dell’appello agli uomini: poesia che nasce dall’attrito del pensiero e dall’attrito della materia lacerata e violentata negli stessi passi paesistici, dalla tensione del pensiero in movimento e dalla inseparabile tensione di una energia poetica profonda e incessante. Basti ripetersi da una parte i versi citati della superiorità combattiva del grande intellettuale

[...] Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra

e dall’altra la sequenza della colata della lava, aperta dal paragone con il formicaio e la caduta distruttiva di un «picciol pomo», tanto poetica quanto valida a certificare la miseria degli uomini assimilati alle formiche nell’eguale esposizione alle catastrofi naturali:

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,

cui là nel tardo autunno

maturità senz’altra forza atterra,

d’un popol di formiche i dolci alberghi,

cavati in molle gleba

con gran lavoro, e l’opre

e le ricchezze che adunate a prova

con lungo affaticar l’assidua gente

avea provvidamente al tempo estivo,

schiaccia, diserta e copre

in un punto; cosí d’alto piombando,

dall’utero tonante

scagliata al ciel profondo,

di ceneri e di pomici e di sassi

notte e ruina, infusa

di bollenti ruscelli,

o pel montano fianco

furiosa tra l’erba

di liquefatti massi

e di metalli e d’infocata arena

scendendo immensa piena,

le cittadi che il mar là su l’estremo

lido aspergea, confuse

e infranse e ricoperse

in pochi istanti: onde su quelle or pasce

la capra, e città nove

sorgon dall’altra banda, a cui sgabello

son le sepolte, e le prostrate mura

l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

dell’uom piú stima o cura

che alla formica: e se piú rara in quello

che nell’altra è la strage,

non avvien ciò d’altronde

fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Lo stesso linguaggio intride concetti e immagini di quadri in forme che possono ben dirsi “materialistiche” per la loro scabra concretezza, per la loro inaudita “fisicità” del paesaggio, dei rari esseri còlti nello spasimo del loro movimento («questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, ricoperti / dell’impietrata lava, / che sotto i passi al peregrin risona; / dove s’annida e si contorce al sole / la serpe, e dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio»). La forma metrica e ritmica, arditissima e lontanissima da ogni forma di poesia tradizionale e da ogni precedente poesia “filosofica”, è ben piú che una sola sperimentazione tecnica, è funzione del ritmo interno filosofico, etico, poetico che, ad esempio, partendo dalla contemplazione del cielo stellato e slargandosi nel vertiginoso moltiplicarsi di spazi infiniti, ne afferra e ne fa esplodere la carica riflessiva-poetica (la piccolezza della terra e dell’uomo nell’universo infinito) come sua estrema e coerente conclusione di verità espressa-impressa con un metodo che non trova riscontro nella tradizione e nella stessa precedente poesia leopardiana.

Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Dove rime, rime al mezzo, assonanze, ripetizioni ossessive di parole («punto» e «appunto»), usufruizione di rinnovati pensieri e immagini specie della zona piú congeniale tardo settecentesca vengono assortite con estrema spregiudicatezza, scagliate nel crogiolo dell’invenzione totale, in cui nessuno schema retorico si frappone fra pensiero e poesia e una ultima espressione della poetica lirica leopardiana abolisce ogni forma di mediazione nella sua assoluta inventività e creatività dell’io poetante e pensante.

Cosí la grande strofe introduttiva (significativamente aperta, insieme a tutto il canto, dai versetti del piú mistico degli evangelisti, Giovanni, ribaltati polemicamente dal loro profondo senso religioso ad un negativo riepilogo della storia umana fino al presente dei «nuovi credenti» del secolo «superbo e sciocco»: «e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce») parte dalla grave e dolente visione dei desolati luoghi (il Vesuvio e la campagna romana dove fiorisce la ginestra) e si inasprisce fino alla lacerazione della crosta terrestre per giunger, senza cesure di tono, seppure con punte di acme furente e di elegia energica, alla conclusione solo esternamente didattica e ironicamente discorsiva, scaturita invece proprio dalla rappresentazione che la presuppone e la sorregge, che è tutt’uno come discorso poetico in movimento e consistenza: «dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive».

E nella sequenza della 2a e 3a strofe (in gran parte già da me lette) piú direttamente si evidenzia la stoltezza del secolo e delle ideologie della Restaurazione, che inverte il cammino del pensiero materialistico e antiprovvidenzialistico dalle filosofie naturalistiche del Rinascimento al pieno Settecento e gabella tale regresso come progresso, a cui si erge l’aperta sfida del Leopardi, assertore persuaso della verità, senza cui vano è il sogno stesso della libertà civile e politica (che richiede appunto la consapevolezza della misera sorte dell’uomo) e che contrappone all’assurdità della credenza nella sorte privilegiata della razza umana e al suo stupido orgoglio la nobiltà di chi riconosce il nostro «basso stato e frale», la nostra mortalità definitiva, la inimicizia della natura, e non accresce le pene naturali con le guerre fra gli uomini che invece considera tutti «confederati» nella loro lotta comune con il comune nemico, e ristabilisce (con la verità esposta interamente al popolo) una vera polis ove regnino finalmente giustizia e pietà.

Queste sono le conclusioni e le proposte piú direttamente “positive” del messaggio leopardiano (si badi bene: proposte, possibilità che sta solo all’uomo di tentare nel suo coraggio di verità e doverosa volontà, senza nessuna garanzia della propria riuscita) che trovano tutta la loro consistenza e il loro spessore ideologico solo perché espresse poeticamente, con una forza di ritmo, di metrica, di collocazione delle parole, dei legami sintattici, senza i quali quel messaggio non avrebbe il suo vero vigore.

Dopo le grandiose strofe 4a («Sovente in queste rive ...») e 5a («Come d’arbor cadendo un picciol pomo ...») già qui interamente lette, nella 6a si apre il grande notturno pompeiano, che richiama e supera tanti echi della poesia delle rovine fra illuminismo e preromanticismo, qui inaspriti da una sorta di deformazione livida ed acre, materialisticamente allucinante: «E nell’orror della secreta notte / per li vacui teatri, / per li templi deformi e per le rotte / case, ove i parti il pipistrello asconde, / come sinistra face / che per vòti palagi atra s’aggiri, / corre il baglior della funerea lava, / che di lontan per l’ombre / rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.» Notturno che conduce al leitmotiv della sorte di caducità delle piú sontuose creazioni dell’uomo sotto l’urto della catastrofe naturale e presuppone l’appassionata rappresentazione del “villanello” ancora timoroso di una nuova eruzione del Vesuvio, nella sua sorte particolarmente misera

(E il villanello intento

ai vigneti, che a stento in questi campi

nutre la morta zolla e incenerita (...)

vede lontano l’usato

suo nido, e il picciol campo,

che gli fu dalla fame unico schermo)

opposta non a caso – unica figura umana evidenziata nella Ginestra e nel deserto vesuviano dove vive non per sua volontà, come l’odorata ginestra – a quella, nella la strofe, dei «giardini e palagi – agli ozi de’ potenti – gradito ospizio.»

Infine l’ultima strofe, che in forma piú breve (in confronto con le altre lunghe, avvolgenti strofe del poema) serra il messaggio poetico con un ritorno inizialmente patetico dell’“odorata” e ora “lenta” ginestra, impastando poi energico vigore e apparente pacatezza, impeto e “saggezza”, tutti interni alla sequenza ritmica di immagini-simboli concettuali che chiude la grande sinfonia poetica nella suprema riesposizione della caducità e delle stolte credenze dell’uomo:

E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate

queste campagne dispogliate adorni,

anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco,

che ritornando al loco

già noto, stenderà l’avaro lembo

su tue molli foreste. e piegherai

sotto il fascio mortal non renitente

il tuo capo innocente:

ma non piegato insino allora indarno

codardamente supplicando innanzi

al futuro oppressor; ma non eretto

con forsennato orgoglio inver le stelle,

né sul deserto, dove

e la sede e i natali

non per voler ma per fortuna avesti;

ma piú saggia, ma tanto

meno inferma dell’uom, quanto le frali

tue stirpi non credesti

o dal fato o da te fatte immortali.

Cosí si conclude questo estremo messaggio del Leopardi di cui si poteva già trovare, fra altre, un’anticipazione lontana in un pensiero dello Zibaldone del 13 aprile 1827 (i cui stessi contenuti e la cui finale destinazione sono ben significativi per la tensione di Leopardi – già da tempo intrecciata al suo pessimismo – verso una nuova civilizzazione e una nuova umanità “comunitaria”). In questo pensiero, facendo congetture sull’associabilità alla civilizzazione umana anche di specie di animali dotati di ingegnosità e abilità, Leopardi giunge ad affermare che «la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo”».

La Ginestra può leggersi cosí anche come la realizzazione suprema di questa Lettera a un giovane del ventesimo secolo (Leopardi scavalca il suo tempo e si rivolge al futuro), mai stesa ma certo vivamente pensata: come un messaggio, qual è quello della Ginestra, che, sulla asserita, amarissima realtà della sorte degli uomini, tutta e solo su questa terra, è tanto piú e sempre piú un invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto piú doverosa proprio nella sua ardua difficoltà, mentre (pensando proprio ai giovani di questo scorcio del ventesimo secolo) attualmente sull’umanità incombe la minaccia della catastrofe nucleare, dell’inquinamento e dei disastri ecologici e par crescere invece l’evasione individualistica nel “privato” contro l’impegno diminuito, almeno per ora e in parte, nella costruzione del “bene comune”.

E infine ogni lettore, che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente non le condivida in parte o totalmente), non può uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, interamente e inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) provare in se stesso «un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni» e non con l’animo «in calma e in riposo»: che è appunto, per Leopardi, il vero effetto della grande poesia.